giovedì 1 maggio 2014

sulla burocrazia




Quale è la ragione della crescente distanza in termini di efficacia tra la burocrazia italiana e altre amministrazioni occidentali? Questa è forse una delle domande più importanti che la nostra classe dirigente deve affrontare. Personalmente ritengo, contrariamente a quanto il senso comune ci induce a pensare, che il problema non sia solo una questione di “riti amministrativi” e cavillosità formali, oltre che delle lungaggini amministrative che ne derivano. Questi sono solo i sintomi di un malessere più profondo aggravatosi attraverso i decenni. La crisi ha, infatti, dimensioni assai più profonde ed è figlia di processo involutivo dalle molte cause:

-          la grande propensione alla spesa di ingenti risorse pubbliche, ancorché a debito, che ha facilitato la tendenza allo spreco ed al clientelismo;
-          le logiche alla base dei processi di selezione del personale pubblico;
-          la grande spinta economica dei decenni passati che ha permesso all’operatore pubblico di ritagliarsi un ruolo dagli scarsi compiti propositivi e dal ridotto profilo tecnico (allora il sistema paese non necessitava di un attenta “mano pubblica”, essendo dotato di altri vantaggi competitivi: valore della lira, costo del lavoro, alta spesa pubblica, evasione tollerata, ecc.);
-          gli assunti ideologici alla base di molte normative di settore (si veda, ad esempio, il modello decisionale disegnato dalle Bassanini a valle degli scandali di tangentopoli);
-          il peso delle lobbies dei professionisti (sempre ben rappresente presso gli organi legislatori);
-          i sistemi di selezione della classe politica;
-          l’eccessiva vicinanza fra livello della decisione e consenso.

L’attuale stato di crisi che investe la pubblica amministrazione italiana è sicuramente di ordine sistemico e volendolo sintetizzare in un unico concetto lo si potrebbe definire come un disallineamento tra gli obiettivi realmente perseguiti dalla struttura della P.A. e gli obiettivi di “buon governo” richiesti dal Paese.


Entrando più in dettaglio potremmo definire la pubblica amministrazione italiana come viziata:

1)       dalla diffusione di processi decisionali estremamente frammentati in cui predominano l‘incertezza rispetto alla chiarezza e la “forma” degli atti rispetto al merito degli stessi;
2)       dalla mancanza di circoli virtuosi fra obiettivi da perseguire (da intendersi come obiettivi di buon governo) e risultati reali raggiunti;
3)       da una forma mentis e da competenze (anche tecniche) dei funzionari pubblici non indirizzate ad obiettivi di sviluppo ma solo di controllo;
4)       tendenza ad un eccesso di controllo, espresso per via regolamentare, tra governo e enti locali, tra amministratori ed uffici, tra uffici e privato, ecc; a fronte di un eccesso di potere trasferito dal “centro” verso la “periferia”.

La situazione non è quindi liquidabile in modo banale ed è risolvibile solo con interventi che incidano profondamente sulla natura e forma della pubblica amministrazione italiana. La crisi di sistema è così strutturale e permanente che ha ridefinito negli anni, soprattutto nel sentire comune, lo stesso ruolo della P.A.; persino i funzionari pubblici si percepiscono come “vidimatori” di proposte promosse da terzi invece che riconoscersi compiti di governo attivo a supporto del decisore politico. Fattori che assieme determinano un immobilismo dell’operatore pubblico che da anni mina il sistema economico della nazione e ne compromette la competitività ed attrattività agli investitori esteri.

Conscio che il problema è innanzi tutto di natura culturale e solo in decenni potrà essere superato, ma volendo comunque contribuire alla discussione in atto indicando proporrei i seguenti ambiti di azione lungo i quali intervenire in via prioritaria:

1)       il riordino dei modelli decisionali, con particolare riferimento alle scelte “complesse” e di livello strategico;
2)       il fattore umano (da intendersi come competenza, formazione, motivazione, ecc..);
3)       il riordino e snellimento delle procedure amministrative a fronte di più chiari obiettivi pubblici;
4)       la riduzione degli ambiti soggetti al controllo della p.a.;
5)       la sostituzione, nelle procedure minori, delle operazioni di controllo ex ante a favore di quelli ex post.


A partire da questi ambiti di azione, propongo qui di seguito quattro strategie ordinate a complessità crescente:

1- Riordino degli ambiti e degli strumenti di controllo della Pubblica Amministrazione.
Prima fase: ampliare significativamente le procedure soggette a mera “comunicazione” rispetto quelle sottoposte a specifico atto di assenso preventivo. La differenza, che pare di forma, è in realtà sostanziale: se il comune (prendiamo per esempio il settore edilizio) dovrà essere soltanto informato dell’esecuzione di un intervento libero ex lege, le verifiche non verteranno sulla legittimità (sede di ampie controversie e lungaggini), ma al più su questioni operative (sicurezza, sostenibilità ecologica, ecc.), più chiare ed oggettive. Sarà quindi necessario scegliere con lungimiranza l‘oggetto del controllo pubblico (da esercitare anche con visite in situ), i limiti dell’intervento “libero” (un esempio: tutto ciò che non ha rilevanza urbanistica può essere ricondotto ad edilizia libera) e gli oneri documentali relativi.
Un buon esempio a riguardo, sempre riferito al contesto edilizio ed urbanistico, è la normativa svizzera: due sole procedure ed una sola delle quali sottoposta ad “assenso”. In quest’ultima è anche prevista la partecipazione di terzi i quali potranno intervenire per difendere i loro interessi, ma con tempi certi e su questioni limitate.
Seconda fase: ridurre gli ambiti di controllo regolamentare ed uniformare le normative di settore lungo tutto il territorio nazionale. Le norme dovranno essere semplici e stabili nel tempo, con prescrizioni operative e non prescrivendo il rispetto di banali adempimenti formali (ad esempio deposito di un certo progetto, di relazioni di compatibilità, di asseverazioni, ecc.), sulla cui reale utilità permango profondi dubbi, ma dal considerevole onere per il cittadino medio. Controlli sul territorio, ancorché sporadici, eseguiti da persone qualificate sarebbero di sicura maggior efficacia e meno costosi per i privati. Già riordinare le normative vigenti prescrivendo di fornire all’ente preposto al controllo solo l’elenco di professionisti che assumeranno la responsabilità di ogni aspetto dell’intervento o della pratica, limitando la produzione al comune degli elaborati progettuali minimi indispensabili per fissare il titoli acquisiti, sarebbe un enorme risultato.

2- Procedure amministrative di assenso più efficienti ed aperte.
Sostituire la fase istruttoria delle procedure amministrative di assenso preventivo e non riconducibili alle comunicazioni di cui al punto precedente con un percorso di confronto e collaborazione diretta e rapida (incontri, riunioni e sopralluoghi devono sostituire le comunicazioni formali prodotte per sola via cartacea o telematica), sfruttando al massimo le potenzialità offerte dalle Conferenze di Servizio. L’efficienza del sistema sarà però condizionata dal grado di competenza ed autonomia decisionale che avranno gli attori coinvolti e dal quadro regolamentare di riferimento che dovrà riconosce ai decisori i giusti margini di azione, limitandosi a dettagliare gli obiettivi da perseguire e non regole da applicare (questo riflessione è valida soprattutto per il governo del territorio).


3- Introdurre nella P.A. competenze adeguate.
Grande limite della P.A. è stato il sistema di selezione del personale che ha negli anni privilegiato le competenze amministrativo-burocratiche rispetto a quelle critico-analitiche. Ne sono negli anni seguite alcune inefficienze divenute ora sistemiche:
- a funzionari p.a. selezionati per decenni senza competenze tecniche adeguate è divenuto necessario fornire norme e regolamenti di dettaglio in conformità dei quali operare. Questa impostazione appesantisce notevolmente i processi decisionali (una opzione non viene valutata in funzione della sua bontà ma della ammissibilità normativa) e priva il dipendente dell’urgenza di sviluppare competenze più elevate oltre che concorre all’ipertrofia normativa che caratterizza il contesto nazionale;
- si è diffusa la prassi di acquisire sul mercato competenze non presenti nella P.A.. Questa tipologia di supporto tecnico sconta delle inefficienze rilevanti, perché limitata nel tempo e a temi specifici oltre che essere condizionata della committenza (spesso politica), senza condizionare in modo positivo i processi decisionali che restano in capo alle strutture politiche o burocratiche; determinando, per contro, un grave esborso pubblico ed inibendo ulteriormente la formazione di competenze interne alla stessa P.A..

Nei decenni passati le tutte pubbliche amministrazioni progettavano ed intervenivano sul territorio anche con interventi complessi, mentre oggi il supporto di consulenti è imprescindibile. È infatti da anni che la P.A. riproduce al suo interno competenze non operative ma puramente di controllo burocratico.

4- Disegnare nuovi modelli decisionali (superare le Bassanini).
Immaginiamo che un operatore privato voglia presentare una proposta non perfettamente conforme agli strumenti urbanistici vigenti ma caratterizzata da una certa utilità pubblica. Ovviamente le strutture degli uffici tecnici saranno obbligate a rigettare la proposta perché non prevista dai regolamenti comunali approvati, prescindendo da ogni valutazione in ordine alla bontà della proposta stessa che spettano, per legge, agli amministratori eletti. Ma la parte politica, come sappiamo, non partecipa alle procedure amministrative ordinarie e per intervenire in modo fattivo dovrebbe essere prima coinvolta in modo informale (previo appuntamento da parte dell’interessato) e poi “convinta” a modificare le norme vigenti. Si avvia quindi una lunga fase di approvazione di nuovi regolamenti per finalmente procedere all’approvazione del progetto da pare degli stessi uffici tecnici che un anno prima l’hanno rigettato. Una procedura farraginosa, lunga, viziata da limiti di competenza (l’amministratore non sempre ha una visione tecnica adeguata), eccesso di potere e clientelismo, che costringe le nostre comunità ad una continua perdita di competitività ed attrattività. Manca in sintesi una sede decisionale che sappia valutare con competenza tecnica, potere, legittimità, efficienza ed efficacia tutte quelle questioni che le norme non possono valutare ed a cui le stesse norme dovrebbero lasciare sufficiente autonomia decisionale. Se il decisore eletto democraticamente potesse concorrere con il supporto dei funzionari e dei tecnici alle decisioni rilevanti, non avrebbe più bisogno di approvare norme dettagliate ed articolare per guidare l’operato degli uffici. Questa sarebbe la prima condizione per ridurre la complessità normativa, almeno a livello comunale.

È solo ridisegnando, quindi, i perimetri e le caratteristiche gli attuali “riti” amministrativi verso forme decisionali basate sulla collaborazione fra P.A. e proponente privato che si potrà superare la frammentazione decisionale introdotta dalle riforme Bassanini, rendendo la struttura dell’ente preposto al controllo adeguatamente flessibile e ricettiva in tempo reale delle proposte private presentate, coscienti che l’operatore privato, soprattutto negli interventi di trasformazione territoriale, non può più essere solo autorizzato a fare, ma dovrà anche essere supportato nella definizione dei contenuti progettuali così da garantire la giusta tutela degli obiettivi collettivi.