domenica 29 settembre 2013

I quattro livelli del cambiamento



Ho individuato i primi di questi “Peccati” nell’inapplicazione di alcune delle filosofie più interessanti contenute in quelle due ottime norme che furono la Legge Urbanistica del 1942 ed il D.M. 1444 del 1968 e che purtroppo, come spesso è accaduto nel nostro Paese, furono applicate in modo distorto ed approssimativo, specialmente dagli uffici tecnici delle nostre amministrazioni comunali, piuttosto che da reali errori di impostazione delle stesse norme (il che è già una gran cosa visto che nella nostra Nazione si tende più a scrivere norme partendo da impulsi di ordine ideologico piuttosto che su basi tecniche). Se leggiamo attentamente le due leggi citate, tenendo però ben presente quali siano state le soluzioni tecniche più diffuse in Italia dagli 50 anni, ci accorgiamo in fretta di una prima importante idiosincrasia tra filosofia alla base della norma e prassi operativa. Da un lato abbiamo infatti la 1150 che prevede in via prioritaria un preciso istituto per disciplinare in dettaglio la trasformazione urbanistica del suolo mentre dall’altro abbiamo gli strumenti nella realtà furono davvero a tal fine utilizzati. Ovviamente mi riferisco al Piano Particolareggiato da un lato e il Piano di Lottizzazione più Intervento diretto dall’altro. Già a partire dalle alterne fortune di questa dicotomia che si può cominciare a riconoscere il profondo scollamento di ordine metodologico tra il costrutto teorico introdotto dalla 1150, anche nella sua forma editata dalla Legge Ponte, e prassi diffusasi minutamente nelle realtà comunali, ma forse meno quali ne furono le conseguenze. Infatti, se da un lato le due norme concedevano all’intervento diretto un ruolo al più residuale tra gli strumenti preordinati alla trasformazione urbanistica del suolo, che sarebbe dovuta essere prevalentemente in capo ad uno strumento attuativo di promozione pubblica (sia per ragioni di obiettivi, sia per ragioni in ordine alle rendite fondiarie, ecc.), gli strumenti urbanistici realmente approvati hanno trasferito quasi in toto l’onere di regolare in dettaglio la progettazione del pieno-vuoto urbano e della costruzione dello spazio pubblico all’iniziativa privata, spesso minuta e su sole basi fondiarie.
Questa non è una questione ideologica ma profondamente tecnica: l’attore pubblico ha, così facendo, di fatto delegato il compito di progettare e regolare spazi collettivi, ancorché di scala urbana, a professionisti ed operatori che avevano come principale obiettivo, legittimo per carità, la tutela e la valorizzazione di meri interessi particolari. Tale comportamento si è ripercosso nei decenni sul controllo dei profili edilizi a chiusura degli spazi collettivi (quando previsti) e nella loro qualità e collocazione (sempre marginale all’impianto urbano di nuova realizzazione e mai al centro del progetto come invece la buona pratica insegnerebbe). Non voglio muovere una banale critica ai colleghi che mi hanno preceduto, anzi: il loro lavoro era, in prima istanza, sviluppare un progetto per la quota privata e nulla ad essi può essere mosso se non in termini di mera disciplina anche perché ritengo che non possa essere chiesto ad un privato di farsi carico di riconoscere, sviluppare e formalizzare l’interesse collettivo anche nei termini “spaziali” e così facendo pretendere di essere riusciti a costruire un pezzo di città pienamente efficiente e di qualità. Il primo peccato originale della nostra urbanistica è stata quindi la latitanza dell’operatore pubblico, sia inteso come organo politico sia come struttura tecnica preposta all’attuazione del P.R.G., sviluppatasi nelle pieghe delle norme vigenti e cullata dalla tentazione al “lasciar fare” di anni passati, piuttosto che della scarsa coscienza dei ruoli pubblici in urbanistica. A riguardo mi permetto di dire, banalmente, che l’interesse pubblico, formalizzato mediante azzonamenti anche di espansione, non si reifica con la costruzione dei volumi, ma nella realizzazione di adeguate porzioni urbani che garantiscano sia sviluppo armonico sia aumento della qualità di vita della città stessa. E lo strumento principe per attuare gli obiettivi di interesse pubblico contenuti nel Piano sarebbe stata la costruzione della la regola di dettaglio: il vecchio sano Piano Particolareggiato, che avrebbe sempre dovuto essere promosso dall’Ente e sviluppato da professionisti (meglio interni alla P.A.) da questi pagati e che avrebbero dovuto operare al riparo da interessi di piccolo cabotaggio (ripeto, legittimi). Lasciando poi perdere ogni ragionamento in ordine alla rendita fondiaria che il ricorso al Piano Particolareggiato avrebbe, in qualche misura, affrontato.
Il cuore di questa riflessione si basa su un banale assunto: la committenza è fondamentale per ottenere un buon progetto e la committenza privata, a meno che non sia particolarmente illuminata (tipo nobile che paga un grande artista, cose così insomma), non tende a declassare il proprio legittimo interesse in favore di quello collettivo, al più accetterà di contribuire ad esso nelle forme e nelle quantità previste per norma. Su quest’ultimo punto sono certo di aver detto cosa di senso comune e ritengo che la dicotomia obiettivi / comportamento delle persone o strutture, sia fondamentale per comprende le mancanze attuali della P.A. in ordine a molte questioni, compresa quella urbanistica.
Avendo vissuto già qualche anno nella P.A., posso testimoniare come anni di scarsa buona pratica urbanistica abbiano concorso, insieme alla sbagliata definizione degli obiettivi e delle competenze degli uffici urbanistica, all’annichilimento delle capacità e sensibilità progettuali degli stessi uffici di piano ormai ridotti a meri certificatori formali, spesso privi forza di proposta o di reali competenze nella gestionale del territorio e ben lontani dall’essere quel motore tecnico continuamente teso al perseguimento degli obiettivi strategici definiti dalla componente politica che servirebbe. In questa situazione scollata e farraginosa, nella realtà non governata se non nella misura trovata nel fragile e parziale concorso delle risorse, reali e progettuali, fornite a caro prezzo dalla proprietà fondiaria, che si è costruito il territorio della nostra Nazione, caratterizzato, in sostanza, da una non sufficiente presenza dell’operatore pubblico che avrebbe, invece, dovuto garantire massima operatività, almeno in termini progettuali. Oggi dobbiamo ricostruire a partire dalle risorse propositive proprie dell’attore pubblico, ma di questo mi occuperò più a valle assieme al concetto di “committenza” da riconoscere alla componente elette dell’Ente locale.

Il tempo e la modifica del titolo V della costituzione hanno poi compromesso quel quadro normativo di dettaglio da utilizzarsi per la stesura degli strumenti urbanistici comunali. La questione è sicuramente meno sottile delle precedenti, ma certamente molto più impattante sulla vita operativa di ogni professionista che si trovi ad operare in più realtà.

Altro elemento di farraginosità delle procedure di governo edilizio in Italia è causata dagli obiettivi di controllo assegnati ai comuni.

La necessità normalizzare il nostro sistema di governo/controllo della produzione edilizia trasferendo risorse dal controllo delle micro-questioni al governo delle macro-questioni, è indubbia e l’orizzonte di riferimento non può che passare per un ri-ordino delle competenze in capo dalle Amministrazioni Comunali che dal controllo di conformità dell’attività edilizia di iniziativa privata deve spostarsi verso la verifica del corretto sviluppo urbanistico del territorio mediante strumenti dedicati oltre che dall’assunzione di iniziativa quale principale attore della costruzione di territorio. E questo caso sì discostandosi fortemente dal ruolo riconosciuto al Comune sin dalla L.U. del 1942 che a questi assegnava “la vigilanza sulle costruzioni che si eseguano nel territorio del Comune per assicurarne la rispondenza alle norme della presente legge e dei regolamenti, alle prescrizioni del piano regolatore comunale e delle modalità esecutive fissate nella licenza di costruzione. Esso si varrà per tale vigilanza dei funzionari ed agenti comunali e d'ogni altro modo di controllo che ritenga opportuno adottare.”. Non è un problema di lana caprina specialmente in una fase storica come quella che la Nazione vive, in cui le risorse per fare territorio, e territorio pubblico in particolare, scarseggiano. Se la norma riconoscesse al comune non il compito di vigilare sul rispetto da parte dei privati delle molte norme vigenti in campo edilizio, ma semplicemente l’attuare i contenuti degli strumenti urbanistici vigenti, perseguirne gli obiettivi e vigilare che la produzione edilizia avvenga nei limiti dell’interesse e della sicurezza pubblica e della sostenibilità ambientale, demandando le verifiche delle normative edilizie minori e civilistiche ai professionisti, capiamo da soli quale cambiamento copernicano verrebbe profuso negli uffici comunali e dove il baricentro dell’operatività di questi si sposterebbe: dal “controllo del privati” al “governo della collettività”, e si tornerebbe anche ad investire sul territorio e se fosse anche in soli termini di progettualità, sarebbe comunque una rivoluzione rigenerante.
Ritengo che questo sia l’“orizzonte”: il punto di arrivo. Ma prima di giungere a questa rivoluzione copernicana nel fare territorio, nella nostra Nazione non sarà solo necessario ri-formulare norme e ruoli degli attori pubblici tuttora consolidati, ma si dovrà passare necessariamente attraverso un importate riorganizzazione del sistema delle professioni afferenti al mondo della produzione edilizia, responsabilizzando chi riveste compiti di pubblico agente sia verso il pubblico, sia verso il privato. E questo grazie a due :
-    sostituendo il controllo e gli adempimenti documentali preventivi verso l’ente controllore con una quota obbligata di controlli in cantiere e segnalando le situazioni difformi agli ordini di competenza e procedendo con gli atti conseguenti;
-     cambiando la forma degli ordini che dovranno farsi carico punire severamente episodi di scorrettezza dei loro iscritti segnalati dagli enti preposti al controllo edilizio;
Se da un lato il sistema dovrà chiedere una maggiore responsabilizzazione del professionista-certificatore verso il pubblico, è necessario, per contro, che lo stesso sistema conceda qualcosa, anzi, molto. Ritengo si possa mettere sul piatto una serie di interventi normativi volti a costruire un sistema di norme di settore in cui il progettista possa operare con certezze, un ambiente facile da interpretare, che gli garantisca i giusti livelli di autonomia e che sia caratterizzato da un’ampia omogeneità geografica. È cosa nota, infatti, che gli enti locali italiani abbiano spiccate tendenze alla sovrapproduzione normativa e, quindi, la potestà regolamentare sia una concessione eccessiva per il nostro contesto nazionale. Questo è certo uno dei principale e più rapidi ambiti di intervento (si fa per dire, essendo sempre politicamente difficile sottrarre un “privilegio” una volta concesso ad un soggetto).
Certo va ricordato che il legislatore, a valle del giugno 2001, da un lato ha sempre limato in favore di un aumento della responsabilizzazione del Professionista-Progettista, mentre dall’altro però ne ha aumentato le adempienze documentali verso il controllore preposto, denotando una spiccata schizofrenia. Non trovate?

Per avviare una fase di reale riordino del nostro sistema di governo del territorio, sarà necessario avere coscienza di quattro importati livelli di complessità che vanno oltre le criticità percepite dal senso comune e che come tali, spesso, fuggono dall’essere affrontate, ma che sono, a mio sindacabilissimo parere, le reali fonti della nostra situazione. Voglio essere chiaro su un punto: le analisi che seguono sono specifiche della nostra situazione normativa e sono funzionali ad un riordino del ruolo della Pubblica Amministrazione e degli uffici tecnici comunali preposti alla pianificazione del territorio. Ogni valutazione critica in merito agli attuali modelli di sviluppo economico che sfruttano rendita fondiaria e produzione edilizia per generare speculazione e facili economie, piuttosto che questioni altre, più afferenti al mondo della filosofia economica, li considero presi per buoni o vi rimanda ad altri futuri post. Questi sono problemi che gravano su molte economie capitaliste Italia compresa. A riguardo penso di avere troppo poco da dire se non qualche piccolo paletto operativo da porre dentro il piano di cui sicuramente vi parlerò in qualche post futuro.
(nuova classe dirigente)
P.A. e urbanistica! Quando si parla di P.A., governo del territorio e relativo rinnovamento, subito le mani corro alla semplificazione normativa, non è vero?
A riguardo vi pongo una semplice domanda: vi siete accorti che in Italia non c’è mai stata tanta burocrazia come da quando si è cominciato a legiferare per sburocratizzare?
Che cosa vi siete risposti? Però non fermatevi ad un classico: “è colpa di una classe dirigente inetta ed incapace di mantenere le promesse” o anche tutte le altre cose che dice Grillo e via discorrendo?
Ma sapete una bella cosa? Secondo me non è così. Io qualche modifica normativa l’ho letta e mi è parso, dico parso, che chi ha legiferato in questi anni lo abbia fatto con il preciso scopo di rende tutto più complicato: con dolo insomma. Ma perché vi chiederete? Forse perché chi legifera non si fida dei cittadini. Forse perché si preferisce evitare i controlli sul territorio (molto più rapidi ed efficaci, in realtà), moltiplicando i controlli su carta ex-ante. Forse per una forma mentis dello stesso legislatore che se non vede qualcosa scritto su carta bollata in triplice vidimata dalla commissione preposta non dorme la notte. O forse perché qualcuno ci mangia? In certa misura sono tutte plausibili, ma il fatto che ci sia molta gente che campi di burocrazia (e mi riferisco anche a chi sta fuori dalla P.A., perché gli uffici tecnici avrebbero altro da fare che spulciare i milioni di faldoni che vengono protocollati) e che questa sia stata così ben rappresentata in parlamento negli anni mi lascia qualche pensiero maligno….
Quindi confido in un parlamento di illuminati e che le lobby si mettano una mano sul cuore, perché nuove norme posso davvero servire a migliorare la complicatissima situazione nostrana.
Questo è il primo step per normalizzare sulla problematicità contesto italiano: selezionare una classe dirigente che realmente voglia diminuire il peso della burocrazia nel nostro Paese e, di conseguenza, ri-configurare il ruolo della P.A., passiamo al secondo.
(nuovo modo di scrivere le norme)
Quali strumenti questa generazione di politici illuminati avrà a disposizione per risolvere questo nodo gordiano?
Il più ovvio degli strumenti è la norma. Il problema sta però nel fatto che la nostra situazione è davvero difficile e per migliorarla servono leggi fantastiche, ottime (già: non basta siano “buone”), che siano scritte in modo nuovo: un modo semplice ed orientato all’operatività e libere da ogni forma ideologica. L’opposto di quello che si fa in Italia (per non parlare di Regione Lombardia). Devo essere norme che privilegino gli obiettivi rispetto alla forma e che individuino i primi considerandone i limiti di fattibilità, sia in ordine alle risorse disponibili che alle competenze professionali disponibili, sia in merito agli scopi da perseguire ed al netto di ideologie spicce piuttosto che da prassi consolidate.
Sul merito di questi obiettivi, sul loro raggiungimento e sulla sostanza degli atti dovrà essere posto l’accento la nuova formulazione normativa, che dovrà avviare anche una fase di depotenziamento del peso della forma e dei percorsi formali, della possibilità di ricorrere in sede amministrativa per la tutela di interessi iper-particolari, ecc. Questa nuova formulazione normativa introduce, ovviamente, una più ampia responsabilizzazione del funzionario tecnico della P.A. e nuove e più attive responsabilità a quest’ultima, la quale dovrà obbligatoriamente lasciare il ruolo di controllore a favore di un più attivo ruolo di “governo” caratterizzato da strumenti efficienti per perseguire obiettivi chiari, oltre a forme di controllo più diffuse.
(una nuova P.A.)
E questo è il terzo livello su cui dovrà operare: la ri-organizzazione funzionale della Pubblica Amministrazione per le parti preposte al governo del territorio.
Bisogna dare un po’ di fiducia ai nostri funzionari,
Non va infatti dimenticato che le regole, intese come puro corpus normativo, non sono sufficienti ad ottenere risultati accettabili se le teste delle persone preposte a compiti di governo (sia amministratori che funzionari)non sono adeguate. E con questo non mi riferisco all’incompetenza od al malaffare, ma piuttosto al sistema di selezione dei quadri tecnici della nostra pubblica amministrazione: non abbiamo progettisti, sociologi, economisti nella P.A. perché il sistema dei concorsi, come è attualmente formulato perchè basato sulla mera conoscenza della norma, premia il “burocrate”. Certo non è il momento di pensare a nuove assunzioni, ma ritengo per il futuro qualche pensiero a riguardo debba essere seriamente fatto, non dimentichiamoci infatti che la progettazione di opere pubbliche è stata per anni in capo alla stessa P.A..
(dei Professionisti)    
Molti problemi in ordine al governo del territorio sono riconducibili a carenze di metodo e di formazione in capo alla P.A. e, come sopra ho già illustrato, anche ad un eccesso di competenze, soprattutto in merito al controllo edilizio. Debbo però aggiungere alcune rapide osservazioni in ordine alla nostra nazione:
-          siamo un popolo abbastanza litigioso (basti guardare i numeri dell’avvocatura) e che difficilmente sa gestirsi in maniera autonoma;
-          siamo un popolo che fatica a riconoscere all’organo che lo governa la necessaria legittimazione per lasciarsi normare: tranne nel caso la legge in questione non risulti vantaggiosa al singolo (al netto di ogni discussione in merito alla qualità dell’attuale classe di governo);
-      siamo un popolo che preferisce avere a che fare con un ufficio tecnico comunale che sentire una serie di professionisti per le loro questioni (sia di ordine edilizio, tecnico, civilistico, ecc.). Vige ancora il modus operandi: “chiamo il sindaco o il mio amico in comune e gli faccio vedere io a questi qua”;
-       siamo un popolo che pur di scaricare sul pubblico i costi sociali propri della trasformazione urbanistica si staccherebbe un arto (sembra quasi una questione ideologica, davvero non so perché dia tanto fastidio fare il giusto parcheggio per un condominio di nuova costruzione, sicuramente abbiamo indici tirati, lo so, strumenti complicati, però dai..);
-         siamo un popolo con troppi professionisti iscritti ad ordini che li tutelano invece di tutelare i loro clienti e, un fine, questa corposa quantità di persone deve produrre un reddito.
In questo contesto, socialmente ed urbanisticamente parlando ed avendo come obiettivo la tutela dell’interesse collettivo, risulta difficile riconoscere piena responsabilità ai singoli professioni, sotto schiaffo dalla proprietà e, ovviamente, dalla attuale situazione economica, lasciando a loro in qualità di incaricato di pubblico servizio tutte le verifiche di compatibilità urbanistica e geologica necessarie ed il rispetto delle norme edilizie e civilistiche.

lunedì 20 maggio 2013

Perchè questo blog




È con gli anni degli studi universitari, quando passavo nottate a rimuginare sullo sfavorevole confronto fra i prodotti della trasformazione e pianificazione urbanistica italiana con i casi studio esteri, che ho cominciato a pormi le prime domande sulle motivazioni sia culturali che sistemiche di questo importante ritardo. Ero infatti colpito dalla qualità dei masterplan sviluppati all’estero e dalla loro capacità di costruire, attraverso un capace gioco di vuoti e di grandi densità, un ottimo “effetto città”, ma anche dai bellissimi progetti di spazi pubblici promossi nelle città spagnole, portoghesi o tedesche, piuttosto che dalla notevole lungimiranza tecnica ed amministrativa dimostrata dagli operatori pubblici di quelle città; quanto deluso dai prodotti nostrani che troppo spesso sfiguravano, mancando di respiro e controllo (non mi riferisco alla produzione edilizia di punta, ma proprio alla poca qualità nel disegno urbano diffusamente proposto ed alla resistenza alla ri-generazione urbana di ampio respiro, troppo spesso dovuta ad una chiara assenza di vision). Ma è solo grazie alla mia esperienza lavorativa presso la P.A., dove ho potuto disporre di un punto di vista interno al “regolatore-decisore” oltre che di una importante serie di esempi che benissimo mi hanno restituito lo stato dell’odierna pratica urbanistica, che sono riuscito a dare ordine logico alle mie perplessità e, quindi, a proporne una sintesi critica. Sintesi che si basa sul riconoscimento di alcuni dei limiti culturali ed ideologici che hanno condizionato, indebolendole, le moderne pratiche pianificatorie italiane sin dalla loro avvio e che io ho velleitariamente voluto chiamare “i peccati originari dell’urbanistica italiana”.
Quella che segue è la mia modestissima interpretazione, ma vi invito a sfogliare i masterplan degli ultimi 15/20 anni sviluppati oltralpe e confrontarli con quelli promossi nella nostra Nazione. Controllate numeri, indici, livello degli operatori privati ma anche ruolo propositivo che gli attori pubblici hanno giocato nello sviluppo ed implementazione di queste proposte di trasformazione urbana. Penso sia da questo confronto, il confronto cioè con modelli dai profili di funzionalità più elevati, che debba essere ordinata la valutazione della nostra situazione ed avviare quindi una profonda fase di ri-configurazione di ruoli e competenze, norme ed obiettivi.

martedì 19 marzo 2013

Chi sono






Questo blog di urbanistica non vuole parlare dei vigenti modelli macro-economici o portare contributi progettuali o teorici alla moderna disciplina della pianificazione, sia perché già in tanti se ne sono occupati e se ne occupano (e tutti con più frutto di quanto potrò mai fare io), sia perché sento il bisogno di raccontare altro.
Voglio infatti parlarvi delle criticità, vere e non ideologiche, che appesantiscono le strutture amministrative, e comunali in particolare, preposte alla pianificazione ed al controllo della produzione edilizia in Italia che ho modo di affrontare ogni giorno durante l’esercizio della mia professione. Anche perché, visto che ci ho rimuginato sopra un sacco di notti, sento la necessità di raccontarle al primo mi dà retta (come gli anziani, insomma). Ironia a parte sono soltanto interessato alle sorti del mio territorio ed a cercare di contribuire con gli strumenti che al momento possiedo, e ritengo che questo blog possa essere uno di questi, sperando di riuscire a  contribuire alla discussione ed al cambiamento.
Ma chi io sono? Sono un urbanista, professionalmente giovane, che lavora nel servizio Urbanistica di un comune del milanese. Ma, nonostante la farraginosa burocrazia italiana, ho trovato qualcosa di unico nel mio posto di lavoro (aldilà del posto fisso). Infatti questo è risultato essere il miglior luogo dal quale “mappare” alcune delle criticità che attanagliano le componenti della Pubblica Amministrazione preposte al governo del territorio. Così, nel tempo libero, molto dirà qualcuno, ho cominciato ad elaborare alcune proposte per migliorarne l’approccio metodologico che qui voglio proporre e che spero abbiate voi la pazienza di leggere ed io il tempo di formularli compiutamente.
Sono cosciente che scriverò note di profonda messa in discussione del “sistema” dal quale ottengo pane ed affitto, ma dato che sono altrettanto cosciente dell’attuale situazione economica che sta vivendo la Nazione e del valore strategico per l’economia che potrebbe avere un sistema dignitoso di pianificazione, che mi sento legittimato alle critiche che seguono (che saranno limitate, appunto, al ruolo dell’operatore pubblico e degli strumenti tecnici da questi utilizzati al netto di disquisizione di ordine giuridico, storico, sociologico ed economico).