Ho individuato i primi di questi “Peccati”
nell’inapplicazione di alcune delle filosofie più interessanti contenute in
quelle due ottime norme che furono la Legge Urbanistica del 1942 ed il D.M.
1444 del 1968 e che purtroppo, come spesso è accaduto nel nostro Paese, furono
applicate in modo distorto ed approssimativo, specialmente dagli uffici tecnici
delle nostre amministrazioni comunali, piuttosto che da reali errori di impostazione
delle stesse norme (il che è già una gran cosa visto che nella nostra Nazione
si tende più a scrivere norme partendo da impulsi di ordine ideologico piuttosto
che su basi tecniche). Se leggiamo attentamente le due leggi citate, tenendo
però ben presente quali siano state le soluzioni tecniche più diffuse in Italia
dagli 50 anni, ci accorgiamo in fretta di una prima importante idiosincrasia
tra filosofia alla base della norma e prassi operativa. Da un lato abbiamo infatti
la 1150 che prevede in via prioritaria un preciso istituto per disciplinare in
dettaglio la trasformazione urbanistica del suolo mentre dall’altro abbiamo gli
strumenti nella realtà furono davvero a tal fine utilizzati. Ovviamente mi
riferisco al Piano Particolareggiato da un lato e il Piano di Lottizzazione più
Intervento diretto dall’altro. Già a partire dalle alterne fortune di questa
dicotomia che si può cominciare a riconoscere il profondo scollamento di ordine
metodologico tra il costrutto teorico introdotto dalla 1150, anche nella sua
forma editata dalla Legge Ponte, e prassi diffusasi minutamente nelle realtà
comunali, ma forse meno quali ne furono le conseguenze. Infatti, se da un lato
le due norme concedevano all’intervento diretto un ruolo al più residuale tra
gli strumenti preordinati alla trasformazione urbanistica del suolo, che
sarebbe dovuta essere prevalentemente in capo ad uno strumento attuativo di
promozione pubblica (sia per ragioni di obiettivi, sia per ragioni in ordine
alle rendite fondiarie, ecc.), gli strumenti urbanistici realmente approvati
hanno trasferito quasi in toto
l’onere di regolare in dettaglio la progettazione del pieno-vuoto urbano e
della costruzione dello spazio pubblico all’iniziativa privata, spesso minuta e
su sole basi fondiarie.
Questa non è una questione ideologica
ma profondamente tecnica: l’attore pubblico ha, così facendo, di fatto delegato
il compito di progettare e regolare spazi collettivi, ancorché di scala urbana,
a professionisti ed operatori che avevano come principale obiettivo, legittimo
per carità, la tutela e la valorizzazione di meri interessi particolari. Tale
comportamento si è ripercosso nei decenni sul controllo dei profili edilizi a chiusura
degli spazi collettivi (quando previsti) e nella loro qualità e collocazione
(sempre marginale all’impianto urbano di nuova realizzazione e mai al centro
del progetto come invece la buona pratica insegnerebbe). Non voglio muovere una
banale critica ai colleghi che mi hanno preceduto, anzi: il loro lavoro era, in
prima istanza, sviluppare un progetto per la quota privata e nulla ad essi può
essere mosso se non in termini di mera disciplina anche perché ritengo che non possa
essere chiesto ad un privato di farsi carico di riconoscere, sviluppare e
formalizzare l’interesse collettivo anche nei termini “spaziali” e così facendo
pretendere di essere riusciti a costruire un pezzo di città pienamente
efficiente e di qualità. Il primo peccato originale della nostra urbanistica è
stata quindi la latitanza dell’operatore pubblico, sia inteso come organo
politico sia come struttura tecnica preposta all’attuazione del P.R.G.,
sviluppatasi nelle pieghe delle norme vigenti e cullata dalla tentazione al
“lasciar fare” di anni passati, piuttosto che della scarsa coscienza dei ruoli
pubblici in urbanistica. A riguardo mi permetto di dire, banalmente, che
l’interesse pubblico, formalizzato mediante azzonamenti anche di espansione,
non si reifica con la costruzione dei volumi, ma nella realizzazione di
adeguate porzioni urbani che garantiscano sia sviluppo armonico sia aumento
della qualità di vita della città stessa. E lo strumento principe per attuare
gli obiettivi di interesse pubblico contenuti nel Piano sarebbe stata la
costruzione della la regola di dettaglio: il vecchio sano Piano
Particolareggiato, che avrebbe sempre dovuto essere promosso dall’Ente e
sviluppato da professionisti (meglio interni alla P.A.) da questi pagati e che
avrebbero dovuto operare al riparo da interessi di piccolo cabotaggio (ripeto,
legittimi). Lasciando poi perdere ogni ragionamento in ordine alla rendita
fondiaria che il ricorso al Piano Particolareggiato avrebbe, in qualche misura,
affrontato.
Il cuore di questa riflessione si
basa su un banale assunto: la committenza è fondamentale per ottenere un buon
progetto e la committenza privata, a meno che non sia particolarmente
illuminata (tipo nobile che paga un grande artista, cose così insomma), non
tende a declassare il proprio legittimo interesse in favore di quello
collettivo, al più accetterà di contribuire ad esso nelle forme e nelle
quantità previste per norma. Su quest’ultimo punto sono certo di aver detto
cosa di senso comune e ritengo che la dicotomia obiettivi / comportamento delle
persone o strutture, sia fondamentale per comprende le mancanze attuali della
P.A. in ordine a molte questioni, compresa quella urbanistica.
Avendo vissuto già qualche anno nella
P.A., posso testimoniare come anni di scarsa buona pratica urbanistica abbiano
concorso, insieme alla sbagliata definizione degli obiettivi e delle competenze
degli uffici urbanistica, all’annichilimento delle capacità e sensibilità progettuali
degli stessi uffici di piano ormai ridotti a meri certificatori formali, spesso
privi forza di proposta o di reali competenze nella gestionale del territorio e
ben lontani dall’essere quel motore tecnico continuamente teso al perseguimento
degli obiettivi strategici definiti dalla componente politica che servirebbe. In
questa situazione scollata e farraginosa, nella realtà non governata se non
nella misura trovata nel fragile e parziale concorso delle risorse, reali e
progettuali, fornite a caro prezzo dalla proprietà fondiaria, che si è
costruito il territorio della nostra Nazione, caratterizzato, in sostanza, da
una non sufficiente presenza dell’operatore pubblico che avrebbe, invece,
dovuto garantire massima operatività, almeno in termini progettuali. Oggi
dobbiamo ricostruire a partire dalle risorse propositive proprie dell’attore
pubblico, ma di questo mi occuperò più a valle assieme al concetto di
“committenza” da riconoscere alla componente elette dell’Ente locale.
Il tempo e la modifica del titolo V
della costituzione hanno poi compromesso quel quadro normativo di dettaglio da
utilizzarsi per la stesura degli strumenti urbanistici comunali. La questione è
sicuramente meno sottile delle precedenti, ma certamente molto più impattante
sulla vita operativa di ogni professionista che si trovi ad operare in più
realtà.
Altro elemento di farraginosità delle
procedure di governo edilizio in Italia è causata dagli obiettivi di controllo
assegnati ai comuni.
La necessità normalizzare il nostro
sistema di governo/controllo della produzione edilizia trasferendo risorse dal
controllo delle micro-questioni al governo delle macro-questioni, è indubbia e
l’orizzonte di riferimento non può che passare per un ri-ordino delle
competenze in capo dalle Amministrazioni Comunali che dal controllo di
conformità dell’attività edilizia di iniziativa privata deve spostarsi verso la
verifica del corretto sviluppo urbanistico del territorio mediante strumenti
dedicati oltre che dall’assunzione di iniziativa quale principale attore della
costruzione di territorio. E questo caso sì discostandosi fortemente dal ruolo
riconosciuto al Comune sin dalla L.U. del 1942 che a questi assegnava “la
vigilanza sulle costruzioni che si eseguano nel territorio del Comune per assicurarne
la rispondenza alle norme della presente legge e dei regolamenti, alle prescrizioni
del piano regolatore comunale e delle modalità esecutive fissate nella licenza
di costruzione. Esso si varrà per tale vigilanza dei funzionari ed agenti
comunali e d'ogni altro modo di controllo che ritenga opportuno adottare.”. Non
è un problema di lana caprina specialmente in una fase storica come quella che
la Nazione vive, in cui le risorse per fare territorio, e territorio pubblico
in particolare, scarseggiano. Se la norma riconoscesse al comune non il compito
di vigilare sul rispetto da parte dei privati delle molte norme vigenti in
campo edilizio, ma semplicemente l’attuare i contenuti degli strumenti
urbanistici vigenti, perseguirne gli obiettivi e vigilare che la produzione
edilizia avvenga nei limiti dell’interesse e della sicurezza pubblica e della
sostenibilità ambientale, demandando le verifiche delle normative edilizie
minori e civilistiche ai professionisti, capiamo da soli quale cambiamento
copernicano verrebbe profuso negli uffici comunali e dove il baricentro
dell’operatività di questi si sposterebbe: dal “controllo del privati” al
“governo della collettività”, e si tornerebbe anche ad investire sul territorio
e se fosse anche in soli termini di progettualità, sarebbe comunque una
rivoluzione rigenerante.
Ritengo che questo sia l’“orizzonte”:
il punto di arrivo. Ma prima di giungere a questa rivoluzione copernicana nel
fare territorio, nella nostra Nazione non sarà solo necessario ri-formulare
norme e ruoli degli attori pubblici tuttora consolidati, ma si dovrà passare necessariamente
attraverso un importate riorganizzazione del sistema delle professioni
afferenti al mondo della produzione edilizia, responsabilizzando chi riveste
compiti di pubblico agente sia verso il pubblico, sia verso il privato. E
questo grazie a due :
- sostituendo il controllo e gli
adempimenti documentali preventivi verso l’ente controllore con una quota
obbligata di controlli in cantiere e segnalando le situazioni difformi agli
ordini di competenza e procedendo con gli atti conseguenti;
- cambiando la forma degli ordini che
dovranno farsi carico punire severamente episodi di scorrettezza dei loro
iscritti segnalati dagli enti preposti al controllo edilizio;
Se da un lato il sistema dovrà
chiedere una maggiore responsabilizzazione del professionista-certificatore
verso il pubblico, è necessario, per contro, che lo stesso sistema conceda
qualcosa, anzi, molto. Ritengo si possa mettere sul piatto una serie di
interventi normativi volti a costruire un sistema di norme di settore in cui il
progettista possa operare con certezze, un ambiente facile da interpretare, che
gli garantisca i giusti livelli di autonomia e che sia caratterizzato da
un’ampia omogeneità geografica. È cosa nota, infatti, che gli enti locali
italiani abbiano spiccate tendenze alla sovrapproduzione normativa e, quindi,
la potestà regolamentare sia una concessione eccessiva per il nostro contesto
nazionale. Questo è certo uno dei principale e più rapidi ambiti di intervento (si
fa per dire, essendo sempre politicamente difficile sottrarre un “privilegio”
una volta concesso ad un soggetto).
Certo va ricordato che il legislatore,
a valle del giugno 2001, da un lato ha sempre limato in favore di un aumento
della responsabilizzazione del Professionista-Progettista, mentre dall’altro
però ne ha aumentato le adempienze documentali verso il controllore preposto,
denotando una spiccata schizofrenia. Non trovate?
Per avviare una fase di reale
riordino del nostro sistema di governo del territorio, sarà necessario avere
coscienza di quattro importati livelli di complessità che vanno oltre le
criticità percepite dal senso comune e che come tali, spesso, fuggono
dall’essere affrontate, ma che sono, a mio sindacabilissimo parere, le reali
fonti della nostra situazione. Voglio essere chiaro su un punto: le analisi che
seguono sono specifiche della nostra situazione normativa e sono funzionali ad
un riordino del ruolo della Pubblica Amministrazione e degli uffici tecnici
comunali preposti alla pianificazione del territorio. Ogni valutazione critica
in merito agli attuali modelli di sviluppo economico che sfruttano rendita
fondiaria e produzione edilizia per generare speculazione e facili economie,
piuttosto che questioni altre, più afferenti al mondo della filosofia
economica, li considero presi per buoni o vi rimanda ad altri futuri post.
Questi sono problemi che gravano su molte economie capitaliste Italia compresa.
A riguardo penso di avere troppo poco da dire se non qualche piccolo paletto
operativo da porre dentro il piano di cui sicuramente vi parlerò in qualche
post futuro.
(nuova
classe dirigente)
P.A. e urbanistica! Quando si parla
di P.A., governo del territorio e relativo rinnovamento, subito le mani corro
alla semplificazione normativa, non è vero?
A riguardo vi pongo una semplice
domanda: vi siete accorti che in Italia non c’è mai stata tanta burocrazia come
da quando si è cominciato a legiferare per sburocratizzare?
Che cosa vi siete risposti? Però non
fermatevi ad un classico: “è colpa di una classe dirigente inetta ed incapace
di mantenere le promesse” o anche tutte le altre cose che dice Grillo e via
discorrendo?
Ma sapete una bella cosa? Secondo me non
è così. Io qualche modifica normativa l’ho letta e mi è parso, dico parso, che
chi ha legiferato in questi anni lo abbia fatto con il preciso scopo di rende
tutto più complicato: con dolo insomma. Ma perché vi chiederete? Forse perché
chi legifera non si fida dei cittadini. Forse perché si preferisce evitare i
controlli sul territorio (molto più rapidi ed efficaci, in realtà),
moltiplicando i controlli su carta ex-ante. Forse per una forma mentis dello
stesso legislatore che se non vede qualcosa scritto su carta bollata in
triplice vidimata dalla commissione preposta non dorme la notte. O forse perché
qualcuno ci mangia? In certa misura sono tutte plausibili, ma il fatto che ci
sia molta gente che campi di burocrazia (e mi riferisco anche a chi sta fuori dalla
P.A., perché gli uffici tecnici avrebbero altro da fare che spulciare i milioni
di faldoni che vengono protocollati) e che questa sia stata così ben
rappresentata in parlamento negli anni mi lascia qualche pensiero maligno….
Quindi confido in un parlamento di
illuminati e che le lobby si mettano una mano sul cuore, perché nuove norme
posso davvero servire a migliorare la complicatissima situazione nostrana.
Questo è il primo step per normalizzare
sulla problematicità contesto italiano: selezionare una classe dirigente che
realmente voglia diminuire il peso della burocrazia nel nostro Paese e, di
conseguenza, ri-configurare il ruolo della P.A., passiamo al secondo.
(nuovo
modo di scrivere le norme)
Quali strumenti questa generazione di
politici illuminati avrà a disposizione per risolvere questo nodo gordiano?
Il più ovvio degli strumenti è la
norma. Il problema sta però nel fatto che la nostra situazione è davvero
difficile e per migliorarla servono leggi fantastiche, ottime (già: non basta
siano “buone”), che siano scritte in modo nuovo: un modo semplice ed orientato
all’operatività e libere da ogni forma ideologica. L’opposto di quello che si
fa in Italia (per non parlare di Regione Lombardia). Devo essere norme che
privilegino gli obiettivi rispetto alla forma e che individuino i primi
considerandone i limiti di fattibilità, sia in ordine alle risorse disponibili
che alle competenze professionali disponibili, sia in merito agli scopi da
perseguire ed al netto di ideologie spicce piuttosto che da prassi consolidate.
Sul merito di questi obiettivi, sul
loro raggiungimento e sulla sostanza degli atti dovrà essere posto l’accento la
nuova formulazione normativa, che dovrà avviare anche una fase di
depotenziamento del peso della forma e dei percorsi formali, della possibilità
di ricorrere in sede amministrativa per la tutela di interessi
iper-particolari, ecc. Questa nuova formulazione normativa introduce,
ovviamente, una più ampia responsabilizzazione del funzionario tecnico della
P.A. e nuove e più attive responsabilità a quest’ultima, la quale dovrà
obbligatoriamente lasciare il ruolo di controllore a favore di un più attivo
ruolo di “governo” caratterizzato da strumenti efficienti per perseguire
obiettivi chiari, oltre a forme di controllo più diffuse.
(una
nuova P.A.)
E questo è il terzo livello su cui
dovrà operare: la ri-organizzazione funzionale della Pubblica Amministrazione
per le parti preposte al governo del territorio.
Bisogna dare un po’ di fiducia ai
nostri funzionari,
Non va infatti dimenticato che le
regole, intese come puro corpus normativo, non sono sufficienti ad ottenere
risultati accettabili se le teste delle persone preposte a compiti di governo
(sia amministratori che funzionari)non sono adeguate. E con questo non mi
riferisco all’incompetenza od al malaffare, ma piuttosto al sistema di
selezione dei quadri tecnici della nostra pubblica amministrazione: non abbiamo
progettisti, sociologi, economisti nella P.A. perché il sistema dei concorsi,
come è attualmente formulato perchè basato sulla mera conoscenza della norma,
premia il “burocrate”. Certo non è il momento di pensare a nuove assunzioni, ma
ritengo per il futuro qualche pensiero a riguardo debba essere seriamente
fatto, non dimentichiamoci infatti che la progettazione di opere pubbliche è
stata per anni in capo alla stessa P.A..
(dei
Professionisti)
Molti
problemi in ordine al governo del territorio sono riconducibili a carenze di
metodo e di formazione in capo alla P.A. e, come sopra ho già illustrato, anche
ad un eccesso di competenze, soprattutto in merito al controllo edilizio. Debbo
però aggiungere alcune rapide osservazioni in ordine alla nostra nazione:
- siamo
un popolo abbastanza litigioso (basti guardare i numeri dell’avvocatura) e che
difficilmente sa gestirsi in maniera autonoma;
- siamo
un popolo che fatica a riconoscere all’organo che lo governa la necessaria
legittimazione per lasciarsi normare: tranne nel caso la legge in questione non
risulti vantaggiosa al singolo (al netto di ogni discussione in merito alla
qualità dell’attuale classe di governo);
- siamo
un popolo che preferisce avere a che fare con un ufficio tecnico comunale che
sentire una serie di professionisti per le loro questioni (sia di ordine
edilizio, tecnico, civilistico, ecc.). Vige ancora il modus operandi: “chiamo
il sindaco o il mio amico in comune e gli faccio vedere io a questi qua”;
- siamo
un popolo che pur di scaricare sul pubblico i costi sociali propri della
trasformazione urbanistica si staccherebbe un arto (sembra quasi una questione
ideologica, davvero non so perché dia tanto fastidio fare il giusto parcheggio
per un condominio di nuova costruzione, sicuramente abbiamo indici tirati, lo
so, strumenti complicati, però dai..);
- siamo
un popolo con troppi professionisti iscritti ad ordini che li tutelano invece
di tutelare i loro clienti e, un fine, questa corposa quantità di persone deve
produrre un reddito.
In questo
contesto, socialmente ed urbanisticamente parlando ed avendo come obiettivo la
tutela dell’interesse collettivo, risulta difficile riconoscere piena
responsabilità ai singoli professioni, sotto schiaffo dalla proprietà e,
ovviamente, dalla attuale situazione economica, lasciando a loro in qualità di
incaricato di pubblico servizio tutte le verifiche di compatibilità urbanistica
e geologica necessarie ed il rispetto delle norme edilizie e civilistiche.